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GESU’, COSI’ UOMO DA SVELARE IL DIVINO

Suscita attenzione e provoca fascino la figura di Gesù, la sua storia, la sua persona. Parlare di Lui è come accendere una miccia che infiamma e scuote. Così è capitato al drappello di cristiani, riuniti nella Rete teologica, desiderosi di introdursi nel ‘Mistero’ Cristo. Così è avvenuto di recente anche ad un nutrito gruppo di persone di una unità pastorale. Nelle due diverse occasioni è venuto a galla un bisogno diffuso di conoscere Gesù, che spesso non trova occasioni di risposta, e un interesse vivace ampiamente condiviso.
Le domande aprono il dialogo: chi, che cosa hanno incontrato i primi che hanno visto Gesù? Che cosa nella sua vicenda umana produce uno squarcio che rivela la sua divinità?
Il dialogo che si sviluppa nell’ultima riunione della ’Rete teologica Santi Angeli’, lunedì 22 gennaio in Seminario, documenta il ‘colpo di fulmine’ del primo incontro con Gesù, utilizzando passi dei Vangeli o facendo riferimento a testi che ne raccontano la vita (Ratzinger, Messori). Ci si domanda come hanno potuto Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni abbandonare immediatamente il padre e la barca. Gli evangelisti isolano questo episodio che lascia intravedere un’amicizia già avviata; i Vangeli non registrano la cronaca dei giorni, ma evidenziano alcuni fatti decisivi. In seguito, quel primo incontro viene sottoposto al vaglio di una lunga verifica nella convivenza degli apostoli con Gesù. Guardando la sua umanità, questi vengono sospinti a protendere lo sguardo più in là: il pane moltiplicato rimanda al pane che diventa suo Corpo; la risurrezione dell’amico Lazzaro fa scoprire che Gesù stesso è risurrezione e vita; in ogni accadimento Gesù si protende verso la ‘sua ora’, quella decisiva della Pasqua. Rimane decisiva la parola di Gesù alla Samaritana: «Se tu conoscessi… chi è colui che ti dice “Dammi da bere”»; come pure la provocazione di Gesù agli apostoli. “Voi, chi dite che io sia?”.
Gesù sorprende i suoi e continua a sorprendere anche noi. Chi può dire con lealtà: “Rallegratevi ed esultate”? L’invito alla gioia che pervade il Vangelo, dalle Beatitudini in poi, fa percepire l’intera vita di Gesù, e conseguentemente anche la vita del cristiano, come ‘Buona Notizia’, protesa fino al compimento del ‘destino’ dell’uomo, che supera la morte nella risurrezione.
L’umanità di Gesù è vera e nello stesso tempo eccezionale. È buona notizia la sua accoglienza verso coloro che la società di allora – e non solo – definisce come ‘scarti’: poveri, lebbrosi, stranieri, donne, bambini, peccatori, prostitute. In Gesù si manifesta dunque una ‘pretesa’ che – attraverso l’umano – sorpassa la misura dell’umano e nello stesso lo porta a compimento. Gesù accoglie e supera; risponde al nostro bisogno, ma lo apre alle dimensioni dell’infinito. Chi è dunque costui? Se lo domandano i suoi amici che lo accolgono in barca, vedendolo comandare al vento e al mare durante la tempesta che li impaurisce. E ce lo chiediamo anche noi, nelle tempeste che sconvolgono il mondo e nelle traversie della vita.
Si potrà dire che la divinità di Gesù si manifesta con evidenza nei miracoli e nella risurrezione. Ma prima di questo svelamento clamoroso, è la vita quotidiana del Signore Gesù tra noi a svelare il mistero della divina Persona del Figlio di Dio.
L’indagine sul ‘Mistero’ di Gesù proseguirà nel prossimo incontro della ‘Rete teologica Santi Angeli’, previsto per lunedì 11 marzo ore 21 in Seminario.

Gianni Colombo

Seguace di Rubens, Cena in casa di Simone Fariseo, Spagna XVII secolo

 

La Sindone e il Natale
L’ODORE DI UN CORPO
Pare che la mostra The Mystery Man si stia chiudendo con il botto: il tempo natalizio ha visto una crescita esponenziale di visitatori. So di alcuni amici, in gruppi anche consistenti, che da varie città sono arrivati a Chioggia ‘per vedere la mostra della Sindone’. Ho percepito una profonda vibrazione in alcuni di loro. Di fronte a Cristo, denunciato, catturato, percosso con i flagelli, coronato di spine, inchiodato mani e piedi sul ruvido legno della croce, morto esalando lo spirito, e infine deposto completamente nudo sulla tavola, si è realizzata un’esperienza che ha percosso gli occhi e trafitto il cuore di molti, forse di tutti. Quest’Uomo ridotto così. Così l’abbiamo ridotto.
Guardare, contemplare, tenere in mente questa figura mentre scorrono i giorni del Natale produce un’impressione strana. Come mettere in paragone il dolce Bambino di Betlemme con il Cristo trafitto?
Il presepio nel circondario del paesaggio, il movimento dei personaggi, l’invenzione delle caratterizzazioni, la fresca atmosfera natalizia; e anche, la densità della celebrazione della Notte di Natale, con la Veglia di letture e canti, e poi subito il frastuono dei regali di Natale, le gite, i pranzi, gli incontri; tutto questo dentro l’eco mediatico delle bombe, la distruzione dei palazzi, lo strazio delle persone.
Eccoci di fronte all’uomo vilipeso, annientato, sconvolto, che si chiama Gesù di Nazaret.
In questi giorni ho in mano il racconto che il romanziere francese Eric Schmitt fa della sua visita a Gerusalemme - La sfida di Gerusalemme -; va a descrivere il cammino dei pellegrini nelle quattordici stazioni della Via Crucis, racconta la sua ripulsa dentro la basilica del Santo Sepolcro in mezzo alla confusione della gente e alla babele delle liturgie, e lui che, in coda agli altri, si avvia verso il buco dove è stata piantata la croce di Cristo: “Improvvisamente tocca a me. Mi inginocchio, mi piego in avanti e… E…  E lo sento. Di colpo respiro l’odore di un corpo. Ne percepisco fisicamente il calore, vicinissimo a me. Uno sguardo potente mi investe…”
Chi è questo Gesù di Betlemme avvolto nella musica natalizia, chi è questo Cristo della Sindone con la ferita aperta ai piedi e nel petto, chi è questo Corpo che suda ai piedi della Croce?
Il mistero di Gesù, dalla nascita alla morte di Croce, contiene tutto il mistero dell’uomo; il dramma della nostra vita e della nostra morte non svanisce nel nulla, ma viene raccolto nel caldo abbraccio del Suo Corpo vivo.

Angelo Busetto 

DI FRONTE ALL’ULTIMA CENA

A gruppi di tre, nel riflesso della Trinità, i personaggi si intrecciano, ciascuno con la propria espressione del volto, i gesti delle mani, la piega del corpo, il colore del vestito. Di fronte all'Ultima Cena di Leonardo, la donna che ci accompagna ci apre lo sguardo a vedere le singole figure di Cristo e degli apostoli, nella loro propria specificità. Entriamo dunque anche noi nella sala del convito, sorprendendo gli invitati nel momento in cui Gesù ha appena detto: “Uno di voi mi tradirà”. Tutti gli apostoli sono sconcertati, ciascuno teso verso l’altro e tutti insieme protesi verso Cristo; siamo accompagnati a riconoscerli uno per uno secondo la mossa di ciascuno, il carattere, il colore, come sospesi sopra la tavola imbandita. Pare fin di sentirne le voci, mentre si spargono in sala i profumi delle vivande, e forse da una stanza accanto le donne che prestano servizio si protendono anch’esse a guardare. E’ la scena di un film, è un fatto che accade ora. Racconta il Vasari, al quale dobbiamo tante informazioni sui pittori del ‘500, che Leonardo lasciava sospeso il dipinto per lunghi tratti di tempo: accadeva che passasse l’intera giornata a guardare sulla parete i personaggi appena abbozzati, o che entrasse improvvisamente nella sala a tracciare una linea o definire un colore.

Questa raffigurazione dell’Ultima Cena, sulla quale tante volte lo sguardo si è posato con rassegnata abitudine, ci resterà in mente, perché raffigura noi, racconta il nostro legame con Cristo, il nostro desiderio di seguirlo, e nello stesso tempo dice la nostra lontananza da Lui, la nostra facile distrazione. Leonardo rappresenta la scena dentro la nostra esistenza quotidiana, quando vorremmo stare in pace con Lui e con il mondo, senza accettare il nostro dramma personale e senza aprirci al dramma del mondo assunto da Cristo. Ci piomba addosso invece il dramma del mondo e quello nostro. Ci troviamo sotto la stessa croce di Gesù, noi che come gli Apostoli avevamo fatto di tutto per rimanerne lontani ed estranei. Lui, Cristo Signore, non si sottrae al nostro sguardo e ci si mostra davanti con le mani aperte e il volto consolato. Sullo sfondo rettangolare di luce sul quale si staglia la sua figura, si protende verso di noi una promessa di risurrezione e di vita.

Angelo Busetto

 

Nell’incontro quotidiano della stampa con i giornalisti, ecco cosa scrive, sabato 14 ottobre, l’Osservatore Romano:

….Ha quindi preso la parola dom Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’ordine Cistercense, che partecipa ai lavori nell’ambito dell’Unione dei superiori generali. Il monaco ha parlato di «fase di cenacolo», dove l’importante non è «quello che dobbiamo capire o dire» ma la preparazione a «uno spazio di ascolto dello Spirito Santo, in cui Egli possa dire alla Chiesa ciò che vuole e quello di cui la Chiesa ha bisogno oggi».

Lepori ha messo in evidenza la metodologia seguita nel Sinodo: lo stile di lavoro dei Circoli minori intorno a un tavolo, ha spiegato, «è veramente un aiuto enorme a partecipare», in «un dialogo stretto», a rimanere continuamente «attivi nell’ascolto e nella parola che si dice», come una «responsabilità delegata verso l’insieme». Questo vuole dire, ha aggiunto, «relazioni» e conoscere le persone con la loro storia.

L’abate cistercense ha raccontato che, in questi giorni, era seduto accanto a una donna israelo-palestinese, condividendo così l’esperienza di una persona che «soffre nella sua carne la guerra attua le». E ha, inoltre, fatto notare di essere al Sinodo, perché eletto dell’Unione superiori generali. In questo contesto, ha detto, è chiamato a rappresentare la vita monastica e proprio come monaco sta imparando molto da questo Sinodo. Anche perché, ha confidato, ricorda «un po’ l’impostazione che san Bene detto dà al cammino di ogni comunità», affermando che «l’abate deve regolare il cammino del gregge in modo che i forti non siano mortificati nella loro generosità e i deboli non siano scoraggiati». Questo significa che «si deve regolare il cammino della comunità e il Sinodo lo fa per tutta la Chiesa». Il valore più grande, infatti, «non è tanto quello che diciamo o decidiamo» ma anzitutto che «si mantenga la comunione della Chiesa». Per questo Lepore ha confidato di sentirsi richiamato «a una conversione, a un ascolto», considerando che forse è venuto al Sinodo preoccupato più di quello che doveva dire o si sarebbe detto, e invece si è accorto che «la cosa più importante è quello che lo Spirito Santo dirà e quindi il nostro ascoltarci reciproco». È importante, ha aggiunto, «veramente ascoltarsi senza che la parola mia o dell’altro ci separi».

L’abate ha concluso sottolineando che si è creata e si crea sempre di più come «una comunione di fondo, una simpatia, un’empatia» tra tutti che stupisce e riempie di speranza. «Stiamo andando — ha detto — verso qualcosa che è bello per la Chiesa intera», per cui è bene «dargli tempo, silenzio, spazio», e soprattutto dare la possibilità «a Dio di convertire il nostro cuore». …

Ciao!
Sono ritornato a vedere la mostra della Sindone, THE MYSTERY MAN, dopo che l'avevo appena intravista nella serata della inaugurazione. Insieme con alcuni amici l'abbiamo percorsa muniti ciascuno di audioguida.
Sguardi attenti e ascolto intenso per le spiegazioni precise sulla storia, le accuratissime  indagini scientifiche, la corrispondenza commovente ai racconti evangelici, la bellezza e il coinvolgimento delle immagini, per arrivare all'incontro con Gesù morto. Fino a intravvederlo risorto, Lui che ha voluto arrivare fino a noi con questa sua immagine più efficace e 'reale' di qualsiasi foto.
Desidero invitare tutte le persone che conosco a regalarsi un tempo per la visita, entro il 7 gennaio 2024, nella Chiesa San Domenico, alla quale si accede con una passerella in una zona bellissima di Chioggia.
Audioguida gratuita con il biglietto (€ 10; € 8 per residenti in provincia di Venezia. Ingresso gratuito per sacerdoti e suore )
BUONA VISITA!
Ciao.
don Angelo Busetto

Vacanze con famiglie a San Martino di Castrozza, un giro in Calabria con alcuni amici, qualche giorno al Meeting di Rimini: un séguito di scoperte, un percorso dentro una storia, alla ricerca di un mondo costruttivo, positivo, intraprendente. Un mondo nel quale è bene abitare e dove anche l’urgenza del dramma suscita energie e solidarietà.
Nella vacanza in montagna la cosa più bella sono i bambini, insieme con i genitori. Una marea, dai due mesi ai dodici anni, che spuntano da ogni dove, in braccio o in carrozzina, corrono in tutte le direzioni, cantano e guardano. Un inizio prorompente di vita, un mondo di energia indomabile, sguardi attenti a paesaggi e persone. Mamme e papà continuamente a loro dedicati, stanchi e lieti, sempre vivi come i figli. E’ un popolo in cammino, consapevole della propria fede e della chiamata a vivere.
Clamoroso l’incontro con don Leo di Lugo, il prete dell’alluvione di Romagna, che racconta e mostra la fede e l’energia del suo popolo, segnalando il carisma dell’unità, dello sguardo sull’altro, della vita come vocazione in mezzo a tutte le circostanze. Ho anche la ‘soddisfazione’ di una lunga e aspra camminata in montagna, che mi porta a respirare profondamente e a guardare un vasto panorama, ‘guadagnato’ dopo un percorso accidentato e faticoso. Si affrontano le difficoltà e si arriva alla meta se si cammina insieme. Un’appartenenza richiamata nella preghiera del mattino e nella Messa della sera, che ci conduce a percorrere i passi del Mistero presente. Il popolo di Dio vive e si alimenta.
Lo percepisco anche nel viaggio in Calabria, un gruppetto di amici, più quelli incontrati, familiari, gente industriosa e accogliente. Un mondo che ti rende partecipe di una storia, di un lavoro, di una speranza. Passato e presente si intrecciano nelle persone e nei luoghi, aprendosi a una speranza viva e condivisa.
Infine, il Meeting di Rimini, innumerevoli via vai su e giù per gli immensi stand numerati dall’A alla D. Scopriamo il Cavallo rosso della campagna di Russia, il coraggio, l’ardimento, la fede dei soldati e dei capitani, raccontati da Eugenio Corti in uno straordinario romanzo-fiume. Conosciamo il medico industrioso del Venezuela, raccontato con partecipazione da una giovane spagnola, che èvoca il medico di Napoli Giuseppe Moscati; la testimonianza delle monache di Valserena emigrate in Siria, un fiore di fede e di carità nel deserto della guerra. Al Meeting non manca mai la testimonianza del monachesimo, che traspare anche nella mostra all’origine del gusto del lavoro. Spunta anche san Francesco, a dare una dritta all’amore alla natura considerata come opera e dono di Dio.
Sei entrato nei padiglioni come visitatore curioso e ti trovi avvolto nell’intreccio di una “amicizia inesauribile’ come la vita, che riporta il cuore alla sorgente. Nessuno si basta - suggerisce la mostra che descrive esperienze di riscatto con i giovani. Il cammino del Meeting prosegue verso il prossimo anno, con una domanda. “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora, cosa cerchiamo?”.

 

‘FARE I CRISTIANI’

La Chiesa la fanno i cristiani. O piuttosto la fa il Signore Dio nel sacramento del Battesimo che – a detta del catechismo – ‘ci fa cristiani’. Quando e dove ci sono i cristiani, lì c’è la Chiesa. Ogni singolo cristiano è una pietra dell’edificio della Chiesa, e tutti insieme i cristiani ne costituiscono le mura. Quando una pietra si sgretola o un muro si corrode, è la Chiesa che decade.  Un secolo fa, Romano Guardini vedeva la Chiesa risvegliarsi ‘nelle anime’. Continua ad accadere nella vita delle persone che nel tempo e nello spazio credono in Gesù via verità e vita, praticano la carità e camminano nella speranza.

La fede non è solo pensiero della mente e sentimento del cuore, né solo fatica o soddisfazione personale; la fede è esperienza di vita. La fede e la carità, e con esse la speranza, costruiscono opere di assistenza, educazione, presenza sociale, secondo la logica cristiana. Ma, prima ancora, la fede, la carità e la speranza della singola persona e di più persone insieme, si esprimono nella realtà quotidiana di casa, lavoro, rapporti sociali, ciascuno con la propria professione e mansione, nella varietà delle imprese che costituiscono l’intreccio e l’organizzazione della società.

A cavallo del primo secolo, un cristiano ignoto spiega a uno sconosciuto di nome Diogneto “perché questa nuova stirpe e maniera di vivere siano comparsi al mondo ora e non prima”. Con un linguaggio che sembra preso dal giornale di stamattina, racconta che i cristiani “vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale… Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati…. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. …. A dirla in breve, come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani.”

Il cristianesimo è iniziato da pochi uomini e anche oggi inizia da ciascuno di noi, nel lavoro o in famiglia, dalle piccole comunità di parrocchie o dalle fraternità dei movimenti, dai religiosi e dai missionari. Un padre al lavoro, una mamma con i figli, un prete o una suora: da ciascuno nasce e vive la Chiesa. Un viaggio in treno o in bus può dare occasione di essere testimoni anche solo con uno sguardo, un gesto, una lettura. La bambinetta, guardando il telegiornale che racconta della morte di una giovane, dice: "Mamma, preghiamo per lei”; la preghiera, prima di mille ricerche di un colpevole o di una giustizia umana. In Giappone i cristiani hanno vissuto e pregato per 250 anni di persecuzione senza la presenza di alcun prete. Cosa chiede Dio ai cristiani? Di avere fede ed essere felici e con questa felicità diventare testimoni. I cristiani non inventano innanzitutto dei programmi pastorali, ma vivono la realtà con un’anima e uno stile nuovi; ogni mattina spunta un germoglio che apre alla speranza nell’incontro con chi lavora, patisce, ama, vive. La Chiesa, mentre si edifica, dona respiro, nelle case e nei luoghi di lavoro, tra parentele e amicizie, nei drammi e nelle speranze che attraversano la giornata. La Chiesa la fanno i cristiani, con il dono dello Spirito che alita sul mondo.                                                                        Che cosa resta dunque da fare per rinnovare la Chiesa e la sua missione? Resta da ‘fare i cristiani’.

Angelo Busetto

Onore a Berlusconi per i tanti meriti, innanzitutto la capacità di amicizia

Così monsignor Camisasca, già cappellano del Milan, ricorda «un uomo di grandi orizzonti» che ha lasciato un segno in tutti i campi in cui si è lanciato. «Anche io, come Ruini, celebrerò la Messa per lui»

Massimo Camisasca

TEMPI

13/06/2023 - 6:00

Con Silvio Berlusconi se ne va un grande protagonista della storia d’Italia, dal Dopoguerra ad oggi. Lo stanno scrivendo tutti, in queste prime ore dopo la sua morte, amici e avversari, segno di una personalità singolare in molti campi dell’agire umano. Dirò subito che non mi piacevano certe sue uscite sulle donne e certi suoi comportamenti. Non per bacchettonismo, ma perché non rendevano ragione di un uomo di grandi orizzonti, quale era lui.

Genio dell’imprenditoria e della comunicazione

Berlusconi è stato un genio dell’imprenditoria. Egli ha saputo intravedere il futuro. Lo ha fatto nel campo immobiliare, della finanza e poi nel campo della comunicazione televisiva e del giornalismo. La creazione delle televisioni nazionali, rompendo il monopolio della tv di Stato, ha inciso profondamente nella cultura del popolo italiano, portando purtroppo anche una visione edonistica della vita. Tale creazione ha imposto alla stessa Rai una mutazione del suo Dna, trasformandola in un ibrido tra intrattenimento e servizio pubblico da cui non si è più risollevata. Da un piccolo studio televisivo sono nati canali che hanno catalizzato e creato centinaia di nuovi volti dello spettacolo.

La discesa in politica e la (mancata) rivoluzione liberale

Il segno della capacità magnifica e organizzativa di Berlusconi è stata la sua discesa in politica nel 1994: in breve tempo ha creato un partito, che ho la portato ad essere più volte presidente del Consiglio e protagonista della vita politica della nazione per trent’anni. Progetti questi nella comunicazione e nella politica, di grande respiro, che hanno messo in luce le doti del mago di Arcore. L’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ride per una battuta durante un vertice dei capi di Stato dell’Unione Europea, Bruxelles, 16 giugno 2005 (foto Ansa) Non è questa l’ora dei bilanci, ma si può dire che la rivoluzione liberale auspicata non ha trovato il suo corso, per gli ostacoli politici e giudiziari che hanno cercato di fermarla, ma forse anche per un’insufficiente visione culturale e per un incontro tra mondo liberale e cattolico che non si è realizzato.

Onore a Berlusconi per la generosità e dedizione con cui ha lavorato con passione e acutezza per il paese che ha tanto amato.

Con il Milan un’epopea immortale

Io ho conosciuto di persona Silvio Berlusconi nei 4-5 anni in cui sono stato cappellano del Milan. Anche qui: quando mai si è visto un uomo che di lì a poco sarebbe entrato in politica, che aveva mostrato già le proprie doti di creatività, scendere nel mondo del calcio, comperare una delle squadre più prestigiose della storia del pallone in Italia, sostituire Liedholm con Arrigo Sacchi che quasi nessuno allora conosceva? Sarebbe nata un’epopea che poi Capello, Ancelotti e altri avrebbero reso immortale.  Berlusconi arrivava a Milanello ottimista, sorridente, capace di motivare, dispensatore di consigli, talvolta invadendo campi di competenza altrui. Ma questi altri lo perdonavano in ragione di quella simpatia di cui l’uomo di Arcore si faceva portatore. Anche io, come il cardinal Ruini, celebrerò la Messa per lui, che mi ha certamente testimoniato, nei brevi anni in cui l’ho accostato, un grande amore alla vita e una grande forza di fronte alle difficoltà. Soprattutto Berlusconi mi ha insegnato a mantenere nell’orizzonte dell’amicizia anche gli avversari. Egli ha portato in tanti ambienti una capacità di rapporto umano fino ad allora inusuale e forse sconosciuta.

Una domanda che ci riporta all'essenziale
Intervista al Card. Angelo De Donatis, Vicario di Sua Santità Papa Francesco per la Diocesi di Roma, che presiederà la Santa Messa allo stadio Helvia Recina di Macerata il prossimo 10 giugno in occasione del 45° Pellegrinaggio.

Il Pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto, nato 45 anni fa per iniziativa di un giovane sacerdote, quest’anno ha come tema “Chi cerchi?”. Come si sente interpellato da questa domanda che Gesù Risorto pone alla Maddalena e che oggi rivolge ad ognuno di noi?

Questa domanda: ”Chi cerchi?”(Gv20,15) che Gesù rivolge alla Maddalena all’alba di Pasqua, è già presente all’inizio del Vangelo di Giovanni, quando Gesù accortosi che i discepoli di Giovanni lo seguivano, si voltò e disse: “Che cosa cercate?” (Gv1,38), e loro risposero: ”Maestro dove dimori?”(Gv 1,38). Anche nell’orto del Getzemani Gesù farà una domanda simile ai nemici che vengono a catturarlo: “Chi cercate?” (Gv 18,4).

Gesù storico e Cristo risorto è sempre lo stesso Signore di ogni uomo che cerca, e Il luogo dove abita non può conoscersi per una informazione, ma per una esperienza. E’ una domanda allora che ci riporta all’essenziale. Non ci sono illusioni, non ci sono interessi su cui appoggiarsi. C’è soltanto una croce su cui appoggiarsi. Ognuno di noi ha tanti motivi per aggrapparsi alla croce; lo vedo con chiarezza nel ministero della riconciliazione; la fedeltà faticosa nelle famiglie, la croce del lavoro così precario tante volte da renderlo disumano. E poi la malattia, la solitudine, il peccato. La Pasqua incomincia così, sorreggendoci alla croce tutti insieme. Certamente la Chiesa in comunione si fa così; stando tutti insieme sotto la croce, a mani vuote; lasciamo ad altri lanterne fiaccole e armi.

Forse, per poterlo un giorno vedere, dobbiamo imparare ogni giorno, che cosa significhi il dolore innocente e dobbiamo con delicatezza affettuosa vegliare con Gesù. Gesù è contento che noi vegliamo con Lui. Non importa se noi alcune volte siamo tra i crocifissori, altre volte siamo più coraggiosi come Giuseppe di Arimatea e Nicodemo. E’ più importante esserci. Gesù ha bisogno che noi vegliamo con Lui così semplicemente senza troppi sensi di colpa e senza troppi onori. Avevano chiesto a Gesù all’inizio del vangelo di Giovanni, dove abitasse, e Lui fa esperienza della morte di un grande amico come Lazzaro, e decide di abitare proprio lì, nel nostro dolore. E lì siamo veramente tutti fratelli.

Il Papa in maniera accorata, più volte in questo ultimo anno, ci ha invitato a pregare per la pace, a domandare la pace. Mons. Luigi Giussani, nel 1998 in piazza S. Pietro davanti a Papa Giovanni Paolo II, ribadiva che “l’esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”. Qual è il senso profondo di questo invito a domandare la pace di Papa Francesco?

Il senso profondo a cui ci invita papa Francesco si esprime nel fatto che la pace è diventata una realtà sempre possibile, da quando nella notte di Natale la storia ha cambiato direzione e gli angeli hanno cantato il Gloria; Dio verso l'uomo amato, il cielo verso la terra, dal Tempio a un campo di pastori. La pace inizia dai perdenti, dai mendicanti, da Dio che ha spogliato se stesso, assumendo la nostra natura, e dai pastori, i reietti di ogni tempo. L’impero romano controllava il mondo con la spada di Cesare; certamente anche con il Diritto romano, ma fondamentalmente con la spada. Ecco tra la spada e il diritto, non sempre nemici, anzi spesso alleati, nasce un bambino. Un bambino supera il Diritto, e rende inefficace la spada. La parola «pace» quando non viene dalla spada, ma quando viene detta nella capanna di Betlemme, non è retorica politica, ma è realtà. La pace poi come ci raccontano i vangeli del tempo di Pasqua è un dono del Risorto; spesso come i discepoli anche noi siamo chiusi in casa per paura del tempo presente. Gesù però viene lo stesso; irrompe dove c’è chiusura, diffidenza, disperazione: “Pace a voi”. Non è una promessa ma un dono. Non è una fatica da compiere ma una Grazia da accogliere che ti cambia dentro, ti ribalta la pietra del cuore. Ancora oggi Gesù risorto con il Suo Spirito continua a ribaltare le pietre; dopo, solo dopo, sono efficaci le diplomazie e le trattative.

I giovani sono attratti da proposte esigenti e ricche di bellezza come il camminare insieme nella notte con uno scopo e desiderano trovare un luogo dove la domanda di senso può essere accolta. Che responsabilità chiede questo alla Chiesa di oggi?

Ogni volta che mi capita di vedere da vicino i giovani, nelle parrocchie, nelle piazze, nelle metropolitane affollate, davanti alle scuole sento forte un nuovo slancio verso la vita. Guardo e basta. Alcune volte prego. Assaporo con tenerezza la vita dei giovani, vite a volte disilluse, piene di voglia di vivere ma faticose. Hanno bisogno dell’albero del Vangelo per ristorarsi alla sua ombra; hanno bisogno di una Chiesa che annuncia loro la Parola così come possono intendere, senza chiedere certificati di idoneità. Quando ci accorgiamo che come testimoni del Regno non siamo accoglienti e non diamo ristoro, dobbiamo avere il coraggio di chiederci che cosa abbiamo seminato e che albero stiamo facendo crescere. Il cammino sinodale è una opportunità da non sprecare anche in questo senso.

È dal seme della spiritualità e dell’interiorità che germogliano vite belle. La Chiesa custodisce questi semi, e il Signore ci manda a fecondare il Suo campo. Senza i piccoli semi della Parola di Dio, si fa fatica, non solo nella adolescenza, ma anche negli anni della università, nel lavoro, nel matrimonio e come genitori, anche nella vita consacrata. Si rischia di vivere una vocazione spesso senza più radici autentiche, più facilmente preda della ricerca del potere, dell’egoismo, della mondanità e del clericalismo, vivendo un laicato, oppure un celibato e un ministero sacerdotale non come dono della Grazia, ma come un vincolo senza felicità, senza amore e senza gioia.  Non dobbiamo però aver paura della nostra debolezza, e a volte anche impotenza, perché nel momento in cui facciamo esperienza di tutto questo, si manifesta la potenza di Dio che non ci lascia soli, e fa germogliare e crescere il seme.

Quando potremo gustare frutti maturi?

La risposta più semplice e più vera è, ogni giorno. Ci vengono offerti in tanti modi diversi, dalle persone che incontriamo; per gustarli però bisogna fare un lavoro di rinuncia, eliminare tanti preconcetti, buttare via tanta zavorra, per restare quasi a mani vuote, cioè libere per accogliere il dono.  Gesù ce lo ha detto chiaramente: «Non portate borsa né sacca né sandali» (Lc 10, 4). Non lasciamoci mai condizionare dai mezzi che abbiamo in mano, non diventiamo gruppo di pressione, o gruppo di potere; andiamo prima di tutto con la forza della fede, incontro e insieme ai giovani in particolare, ragazzi e ragazze che attendono una Parola di Speranza, nel mondo e nella Chiesa, non più collaboratori ma corresponsabili.

 

“La prova più forte che siamo fatti ad immagine della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione per amare e viviamo per essere amati. Usando un’analogia suggerita dalla biologia, diremmo che l’essere umano porta nel proprio “genoma” la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore”.

(Benedetto XVI, dall’Angelus del 7 Giugno 2009, solennità della Santissima Trinità)