
THE MYSTERY MAN

la vita non è una traversata solitaria…
Vacanze con famiglie a San Martino di Castrozza, un giro in Calabria con alcuni amici, qualche giorno al Meeting di Rimini: un séguito di scoperte, un percorso dentro una storia, alla ricerca di un mondo costruttivo, positivo, intraprendente. Un mondo nel quale è bene abitare e dove anche l’urgenza del dramma suscita energie e solidarietà.
Nella vacanza in montagna la cosa più bella sono i bambini, insieme con i genitori. Una marea, dai due mesi ai dodici anni, che spuntano da ogni dove, in braccio o in carrozzina, corrono in tutte le direzioni, cantano e guardano. Un inizio prorompente di vita, un mondo di energia indomabile, sguardi attenti a paesaggi e persone. Mamme e papà continuamente a loro dedicati, stanchi e lieti, sempre vivi come i figli. E’ un popolo in cammino, consapevole della propria fede e della chiamata a vivere.
Clamoroso l’incontro con don Leo di Lugo, il prete dell’alluvione di Romagna, che racconta e mostra la fede e l’energia del suo popolo, segnalando il carisma dell’unità, dello sguardo sull’altro, della vita come vocazione in mezzo a tutte le circostanze. Ho anche la ‘soddisfazione’ di una lunga e aspra camminata in montagna, che mi porta a respirare profondamente e a guardare un vasto panorama, ‘guadagnato’ dopo un percorso accidentato e faticoso. Si affrontano le difficoltà e si arriva alla meta se si cammina insieme. Un’appartenenza richiamata nella preghiera del mattino e nella Messa della sera, che ci conduce a percorrere i passi del Mistero presente. Il popolo di Dio vive e si alimenta.
Lo percepisco anche nel viaggio in Calabria, un gruppetto di amici, più quelli incontrati, familiari, gente industriosa e accogliente. Un mondo che ti rende partecipe di una storia, di un lavoro, di una speranza. Passato e presente si intrecciano nelle persone e nei luoghi, aprendosi a una speranza viva e condivisa.
Infine, il Meeting di Rimini, innumerevoli via vai su e giù per gli immensi stand numerati dall’A alla D. Scopriamo il Cavallo rosso della campagna di Russia, il coraggio, l’ardimento, la fede dei soldati e dei capitani, raccontati da Eugenio Corti in uno straordinario romanzo-fiume. Conosciamo il medico industrioso del Venezuela, raccontato con partecipazione da una giovane spagnola, che èvoca il medico di Napoli Giuseppe Moscati; la testimonianza delle monache di Valserena emigrate in Siria, un fiore di fede e di carità nel deserto della guerra. Al Meeting non manca mai la testimonianza del monachesimo, che traspare anche nella mostra all’origine del gusto del lavoro. Spunta anche san Francesco, a dare una dritta all’amore alla natura considerata come opera e dono di Dio.
Sei entrato nei padiglioni come visitatore curioso e ti trovi avvolto nell’intreccio di una “amicizia inesauribile’ come la vita, che riporta il cuore alla sorgente. Nessuno si basta - suggerisce la mostra che descrive esperienze di riscatto con i giovani. Il cammino del Meeting prosegue verso il prossimo anno, con una domanda. “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora, cosa cerchiamo?”.
‘FARE I CRISTIANI’
La Chiesa la fanno i cristiani. O piuttosto la fa il Signore Dio nel sacramento del Battesimo che – a detta del catechismo – ‘ci fa cristiani’. Quando e dove ci sono i cristiani, lì c’è la Chiesa. Ogni singolo cristiano è una pietra dell’edificio della Chiesa, e tutti insieme i cristiani ne costituiscono le mura. Quando una pietra si sgretola o un muro si corrode, è la Chiesa che decade. Un secolo fa, Romano Guardini vedeva la Chiesa risvegliarsi ‘nelle anime’. Continua ad accadere nella vita delle persone che nel tempo e nello spazio credono in Gesù via verità e vita, praticano la carità e camminano nella speranza.
La fede non è solo pensiero della mente e sentimento del cuore, né solo fatica o soddisfazione personale; la fede è esperienza di vita. La fede e la carità, e con esse la speranza, costruiscono opere di assistenza, educazione, presenza sociale, secondo la logica cristiana. Ma, prima ancora, la fede, la carità e la speranza della singola persona e di più persone insieme, si esprimono nella realtà quotidiana di casa, lavoro, rapporti sociali, ciascuno con la propria professione e mansione, nella varietà delle imprese che costituiscono l’intreccio e l’organizzazione della società.
A cavallo del primo secolo, un cristiano ignoto spiega a uno sconosciuto di nome Diogneto “perché questa nuova stirpe e maniera di vivere siano comparsi al mondo ora e non prima”. Con un linguaggio che sembra preso dal giornale di stamattina, racconta che i cristiani “vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale… Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati…. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. …. A dirla in breve, come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani.”
Il cristianesimo è iniziato da pochi uomini e anche oggi inizia da ciascuno di noi, nel lavoro o in famiglia, dalle piccole comunità di parrocchie o dalle fraternità dei movimenti, dai religiosi e dai missionari. Un padre al lavoro, una mamma con i figli, un prete o una suora: da ciascuno nasce e vive la Chiesa. Un viaggio in treno o in bus può dare occasione di essere testimoni anche solo con uno sguardo, un gesto, una lettura. La bambinetta, guardando il telegiornale che racconta della morte di una giovane, dice: "Mamma, preghiamo per lei”; la preghiera, prima di mille ricerche di un colpevole o di una giustizia umana. In Giappone i cristiani hanno vissuto e pregato per 250 anni di persecuzione senza la presenza di alcun prete. Cosa chiede Dio ai cristiani? Di avere fede ed essere felici e con questa felicità diventare testimoni. I cristiani non inventano innanzitutto dei programmi pastorali, ma vivono la realtà con un’anima e uno stile nuovi; ogni mattina spunta un germoglio che apre alla speranza nell’incontro con chi lavora, patisce, ama, vive. La Chiesa, mentre si edifica, dona respiro, nelle case e nei luoghi di lavoro, tra parentele e amicizie, nei drammi e nelle speranze che attraversano la giornata. La Chiesa la fanno i cristiani, con il dono dello Spirito che alita sul mondo. Che cosa resta dunque da fare per rinnovare la Chiesa e la sua missione? Resta da ‘fare i cristiani’.
Angelo Busetto
TEMPI
Con Silvio Berlusconi se ne va un grande protagonista della storia d’Italia, dal Dopoguerra ad oggi. Lo stanno scrivendo tutti, in queste prime ore dopo la sua morte, amici e avversari, segno di una personalità singolare in molti campi dell’agire umano. Dirò subito che non mi piacevano certe sue uscite sulle donne e certi suoi comportamenti. Non per bacchettonismo, ma perché non rendevano ragione di un uomo di grandi orizzonti, quale era lui.
Berlusconi è stato un genio dell’imprenditoria. Egli ha saputo intravedere il futuro. Lo ha fatto nel campo immobiliare, della finanza e poi nel campo della comunicazione televisiva e del giornalismo. La creazione delle televisioni nazionali, rompendo il monopolio della tv di Stato, ha inciso profondamente nella cultura del popolo italiano, portando purtroppo anche una visione edonistica della vita. Tale creazione ha imposto alla stessa Rai una mutazione del suo Dna, trasformandola in un ibrido tra intrattenimento e servizio pubblico da cui non si è più risollevata. Da un piccolo studio televisivo sono nati canali che hanno catalizzato e creato centinaia di nuovi volti dello spettacolo.
Il segno della capacità magnifica e organizzativa di Berlusconi è stata la sua discesa in politica nel 1994: in breve tempo ha creato un partito, che ho la portato ad essere più volte presidente del Consiglio e protagonista della vita politica della nazione per trent’anni. Progetti questi nella comunicazione e nella politica, di grande respiro, che hanno messo in luce le doti del mago di Arcore. L’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ride per una battuta durante un vertice dei capi di Stato dell’Unione Europea, Bruxelles, 16 giugno 2005 (foto Ansa) Non è questa l’ora dei bilanci, ma si può dire che la rivoluzione liberale auspicata non ha trovato il suo corso, per gli ostacoli politici e giudiziari che hanno cercato di fermarla, ma forse anche per un’insufficiente visione culturale e per un incontro tra mondo liberale e cattolico che non si è realizzato.
Onore a Berlusconi per la generosità e dedizione con cui ha lavorato con passione e acutezza per il paese che ha tanto amato.
Io ho conosciuto di persona Silvio Berlusconi nei 4-5 anni in cui sono stato cappellano del Milan. Anche qui: quando mai si è visto un uomo che di lì a poco sarebbe entrato in politica, che aveva mostrato già le proprie doti di creatività, scendere nel mondo del calcio, comperare una delle squadre più prestigiose della storia del pallone in Italia, sostituire Liedholm con Arrigo Sacchi che quasi nessuno allora conosceva? Sarebbe nata un’epopea che poi Capello, Ancelotti e altri avrebbero reso immortale. Berlusconi arrivava a Milanello ottimista, sorridente, capace di motivare, dispensatore di consigli, talvolta invadendo campi di competenza altrui. Ma questi altri lo perdonavano in ragione di quella simpatia di cui l’uomo di Arcore si faceva portatore. Anche io, come il cardinal Ruini, celebrerò la Messa per lui, che mi ha certamente testimoniato, nei brevi anni in cui l’ho accostato, un grande amore alla vita e una grande forza di fronte alle difficoltà. Soprattutto Berlusconi mi ha insegnato a mantenere nell’orizzonte dell’amicizia anche gli avversari. Egli ha portato in tanti ambienti una capacità di rapporto umano fino ad allora inusuale e forse sconosciuta.
Una domanda che ci riporta all'essenziale
Intervista al Card. Angelo De Donatis, Vicario di Sua Santità Papa Francesco per la Diocesi di Roma, che presiederà la Santa Messa allo stadio Helvia Recina di Macerata il prossimo 10 giugno in occasione del 45° Pellegrinaggio.
Il Pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto, nato 45 anni fa per iniziativa di un giovane sacerdote, quest’anno ha come tema “Chi cerchi?”. Come si sente interpellato da questa domanda che Gesù Risorto pone alla Maddalena e che oggi rivolge ad ognuno di noi?
Questa domanda: ”Chi cerchi?”(Gv20,15) che Gesù rivolge alla Maddalena all’alba di Pasqua, è già presente all’inizio del Vangelo di Giovanni, quando Gesù accortosi che i discepoli di Giovanni lo seguivano, si voltò e disse: “Che cosa cercate?” (Gv1,38), e loro risposero: ”Maestro dove dimori?”(Gv 1,38). Anche nell’orto del Getzemani Gesù farà una domanda simile ai nemici che vengono a catturarlo: “Chi cercate?” (Gv 18,4).
Gesù storico e Cristo risorto è sempre lo stesso Signore di ogni uomo che cerca, e Il luogo dove abita non può conoscersi per una informazione, ma per una esperienza. E’ una domanda allora che ci riporta all’essenziale. Non ci sono illusioni, non ci sono interessi su cui appoggiarsi. C’è soltanto una croce su cui appoggiarsi. Ognuno di noi ha tanti motivi per aggrapparsi alla croce; lo vedo con chiarezza nel ministero della riconciliazione; la fedeltà faticosa nelle famiglie, la croce del lavoro così precario tante volte da renderlo disumano. E poi la malattia, la solitudine, il peccato. La Pasqua incomincia così, sorreggendoci alla croce tutti insieme. Certamente la Chiesa in comunione si fa così; stando tutti insieme sotto la croce, a mani vuote; lasciamo ad altri lanterne fiaccole e armi.
Forse, per poterlo un giorno vedere, dobbiamo imparare ogni giorno, che cosa significhi il dolore innocente e dobbiamo con delicatezza affettuosa vegliare con Gesù. Gesù è contento che noi vegliamo con Lui. Non importa se noi alcune volte siamo tra i crocifissori, altre volte siamo più coraggiosi come Giuseppe di Arimatea e Nicodemo. E’ più importante esserci. Gesù ha bisogno che noi vegliamo con Lui così semplicemente senza troppi sensi di colpa e senza troppi onori. Avevano chiesto a Gesù all’inizio del vangelo di Giovanni, dove abitasse, e Lui fa esperienza della morte di un grande amico come Lazzaro, e decide di abitare proprio lì, nel nostro dolore. E lì siamo veramente tutti fratelli.
Il Papa in maniera accorata, più volte in questo ultimo anno, ci ha invitato a pregare per la pace, a domandare la pace. Mons. Luigi Giussani, nel 1998 in piazza S. Pietro davanti a Papa Giovanni Paolo II, ribadiva che “l’esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”. Qual è il senso profondo di questo invito a domandare la pace di Papa Francesco?
Il senso profondo a cui ci invita papa Francesco si esprime nel fatto che la pace è diventata una realtà sempre possibile, da quando nella notte di Natale la storia ha cambiato direzione e gli angeli hanno cantato il Gloria; Dio verso l'uomo amato, il cielo verso la terra, dal Tempio a un campo di pastori. La pace inizia dai perdenti, dai mendicanti, da Dio che ha spogliato se stesso, assumendo la nostra natura, e dai pastori, i reietti di ogni tempo. L’impero romano controllava il mondo con la spada di Cesare; certamente anche con il Diritto romano, ma fondamentalmente con la spada. Ecco tra la spada e il diritto, non sempre nemici, anzi spesso alleati, nasce un bambino. Un bambino supera il Diritto, e rende inefficace la spada. La parola «pace» quando non viene dalla spada, ma quando viene detta nella capanna di Betlemme, non è retorica politica, ma è realtà. La pace poi come ci raccontano i vangeli del tempo di Pasqua è un dono del Risorto; spesso come i discepoli anche noi siamo chiusi in casa per paura del tempo presente. Gesù però viene lo stesso; irrompe dove c’è chiusura, diffidenza, disperazione: “Pace a voi”. Non è una promessa ma un dono. Non è una fatica da compiere ma una Grazia da accogliere che ti cambia dentro, ti ribalta la pietra del cuore. Ancora oggi Gesù risorto con il Suo Spirito continua a ribaltare le pietre; dopo, solo dopo, sono efficaci le diplomazie e le trattative.
I giovani sono attratti da proposte esigenti e ricche di bellezza come il camminare insieme nella notte con uno scopo e desiderano trovare un luogo dove la domanda di senso può essere accolta. Che responsabilità chiede questo alla Chiesa di oggi?
Ogni volta che mi capita di vedere da vicino i giovani, nelle parrocchie, nelle piazze, nelle metropolitane affollate, davanti alle scuole sento forte un nuovo slancio verso la vita. Guardo e basta. Alcune volte prego. Assaporo con tenerezza la vita dei giovani, vite a volte disilluse, piene di voglia di vivere ma faticose. Hanno bisogno dell’albero del Vangelo per ristorarsi alla sua ombra; hanno bisogno di una Chiesa che annuncia loro la Parola così come possono intendere, senza chiedere certificati di idoneità. Quando ci accorgiamo che come testimoni del Regno non siamo accoglienti e non diamo ristoro, dobbiamo avere il coraggio di chiederci che cosa abbiamo seminato e che albero stiamo facendo crescere. Il cammino sinodale è una opportunità da non sprecare anche in questo senso.
È dal seme della spiritualità e dell’interiorità che germogliano vite belle. La Chiesa custodisce questi semi, e il Signore ci manda a fecondare il Suo campo. Senza i piccoli semi della Parola di Dio, si fa fatica, non solo nella adolescenza, ma anche negli anni della università, nel lavoro, nel matrimonio e come genitori, anche nella vita consacrata. Si rischia di vivere una vocazione spesso senza più radici autentiche, più facilmente preda della ricerca del potere, dell’egoismo, della mondanità e del clericalismo, vivendo un laicato, oppure un celibato e un ministero sacerdotale non come dono della Grazia, ma come un vincolo senza felicità, senza amore e senza gioia. Non dobbiamo però aver paura della nostra debolezza, e a volte anche impotenza, perché nel momento in cui facciamo esperienza di tutto questo, si manifesta la potenza di Dio che non ci lascia soli, e fa germogliare e crescere il seme.
Quando potremo gustare frutti maturi?
La risposta più semplice e più vera è, ogni giorno. Ci vengono offerti in tanti modi diversi, dalle persone che incontriamo; per gustarli però bisogna fare un lavoro di rinuncia, eliminare tanti preconcetti, buttare via tanta zavorra, per restare quasi a mani vuote, cioè libere per accogliere il dono. Gesù ce lo ha detto chiaramente: «Non portate borsa né sacca né sandali» (Lc 10, 4). Non lasciamoci mai condizionare dai mezzi che abbiamo in mano, non diventiamo gruppo di pressione, o gruppo di potere; andiamo prima di tutto con la forza della fede, incontro e insieme ai giovani in particolare, ragazzi e ragazze che attendono una Parola di Speranza, nel mondo e nella Chiesa, non più collaboratori ma corresponsabili.
“La prova più forte che siamo fatti ad immagine della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione per amare e viviamo per essere amati. Usando un’analogia suggerita dalla biologia, diremmo che l’essere umano porta nel proprio “genoma” la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore”.
(Benedetto XVI, dall’Angelus del 7 Giugno 2009, solennità della Santissima Trinità)
Annalisa Teggi da TEMPI 31/05/2023
L’arte è inutile, rispetto a un’idropulitrice. Eppure è un gesto artistico che può far intravedere il baluginio di una ricostruzione in Romagna. Non si tratta di connessioni stradali ripristinate, di servizi riattivati, edifici ripuliti e agibili. È una disponibilità alla ricostruzione più profonda, intima, quella senza cui nessun altro gesto utile, operativo, concreto potrebbe davvero tenere. L’arte è l’impronta digitale dell’uomo, lo isola come creatura unica nell’ambito della Creazione. Chesterton sostenne che le pitture rupestri sono l’evidenza che non c’è evoluzione lineare dalla scimmia all’uomo. Quando un essere comincia a disegnare, cioè a riflettere e riprodurre ciò che vede, si è di fronte a una coscienza, un salto portentoso di specie.
Franco Vignazia, La Madonna del Fango
Da quel tempo primitivo nulla è cambiato, per l’uomo delle caverne la lancia era qualcosa di estremamente utile per la sopravvivenza, e però l’arte era compagna indispensabile dentro le fatiche e le gioie dei giorni per risvegliare il bisogno di capire il senso degli avvenimenti. A Forlì le idropulitrici, le pale, i badili e i tira acqua sono strumenti benedetti in queste settimane di fatica dopo il disastro dell’alluvione. Li ha usati anche il pittore Franco Vignazia che però dal fango ha tirato fuori anche un quadro che ha preso il nome di Madonna del fango e che in pochissimo tempo il popolo ha riconosciuto come un segno a cui aggrapparsi per sostenere il peso del dolore e anche della speranza in una città sconvolta.MIl percorso dalla nascita di quest’opera alla sua diffusione è l’opposto dell’autoreferenzialità che domina il panorama attuale. Non c’è un artista talentuoso da applaudire sotto i riflettori, c’è un uomo che mette a disposizione delle anime il frutto della sua maestria e quello che la sua opera genera è una comunità umana che si risveglia. Attraverso il racconto di Franco Vignazia ripercorriamo quel che sta accadendo a Forlì. Tutto comincia dal fango, dall’impatto con la realtà.
Cosa hai visto in queste settimane? Tu e la tua famiglia state bene?
Più di metà della città è stata devastata e ci sono stati anche dei morti. Non essendo stati colpiti direttamente, io e mia moglie siamo andati a dare una mano agli amici. Anche la casa in campagna di mio suocero è stata colpita. È in via Argine Montone e il nome dice tutto. Lì l’acqua ha buttato giù reti, muretti, frutteti e dentro casa ha distrutto tutto quello che ha trovato. Per noi è un luogo caro, certo, ma è il posto dove andiamo d’estate con le famiglie. Tanti hanno visto spazzata via la sola e unica casa di proprietà. La scorsa notte mi è venuto da pensare al diluvio universale, Dio poteva fare di tutto. Poteva mandare il fuoco e invece l’acqua è la vera devastazione, perché copre davvero ogni cosa. E anche certe filastrocche testimoniano che tra gli elementi naturali l’acqua è potentissima. Nella canzone di Branduardi Alla fiera dell’Est l’acqua arriva verso la fine, sovrasta il resto: «E venne l’acqua, che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò».
Nell’Apocalisse si dice che quando verranno cieli e terra nuova non ci sarà più il mare. L’acqua è davvero un elemento devastante. E in mezzo a questo diluvio di fango tu ti sei messo a dipingere? Qualcuno direbbe che nel pieno dell’emergenza fare un quadro è una cosa inutile.
A proposito di cose inutili, una delle amiche carissime che abbiamo aiutato è una signora, vedova, a cui l’alluvione ha interamente allagato la casa. L’hanno evacuata in gommone e una delle sue grandi preoccupazioni era perdere tutti i ricordi della sua vita e di suo marito. Molti arredi e oggetti domestici sono irrecuperabili perché il fango è impregnato di tutte le sostanze che c’erano nel fiume, anche velenose. Il fiume si porta dentro di tutto. In mezzo alla roba infangata della nostra amica c’era un servizio di tazzine blu col bordo bianco regalatole per le nozze. Mia moglie Rosangela si è messa a pulire quelle tazzine, le ha deposte in una cassettina avvolgendole una a una nei fogli di carta assorbente. Da un certo punto di vista salvare delle tazzine in mezzo al disastro è proprio un niente, una roba inutile. E però questo gesto è bastato per sciogliere un po’ di dolore nel cuore della nostra amica.
L’opposto della furia impersonale è una coscienza che mette a fuoco e custodisce ciò che ama. Forse è lo stesso motivo per cui hai lasciato per un po’ la pala e hai preso i pennelli in mano?
Dopo due giorni di lavoro nel fango sono tornato a casa trattenendo alcune cose. La prima riguarda il colore, proprio il colore del fango. Si può davvero dire: cinquanta sfumature di fango. C’è questa polvere gialla e grigia nell’aria, un borotalco che appanna la vista. Per terra ci sono tinte tra il verde marcio e il beige e il grigio. Di per sé è un colore anche bello in alcuni punti. Sembrava che stesse vincendo lui, sotto. Ma sopra il fango c’era una marea di giovani e meno giovani, tutti armati di pale e tira acqua, ed è questo popolo che vince il fango. Non vince rispetto al lavoro, perché la fatica sembra non aver mai fine visto che il pantano risale dopo che l’hai tolto, vince rispetto all’amore. Sopra la coperta di paura del fango ci sono tantissimi gesti di dedizione e cura. L’altro aspetto che ho trattenuto sono i segni chiari attraverso cui la Madonna, come mamma, si è manifestata. Alcune edicole mariane sparse nella campagna romagnola hanno retto in mezzo alla distruzione più totale, ad esempio ci sono vigne rovesciate insieme ai pali di cemento che le reggevano. In un ufficio completamente sommerso e con ogni sorta di documenti cartacei impregnati di fango è stata trovata una scatola di cartone asciutta contenente tre immagini della Madonna del Fuoco, la protettrice di Forlì.
E non sono solo i fatti in sé a colpire, ma come le persone hanno letto questi segni. C’è una disponibilità ad accogliere la certezza che qualcosa di più grande di noi operi nel mondo. Dopo tutto questo sono arrivato a casa e ho cominciato a disegnare.
Cosa vediamo nel quadro della Madonna del fango?
Al centro c’è la Madonna in mezzo a un mare di fango, ci sono gli strumenti da lavoro e stringe a sé con un braccio una famiglia. Attorno altre persone si avvicinano alla famiglia. In questi giorni concitati mi sono reso conto che il lume della fede che ciascuno si porta dentro si trasmette per attrazione. Le altre figure si avvicinano alla famiglia stretta a Maria perché sono attratte dal bene che vedono presente in loro. E con l’altro braccio Maria apre il suo gesto di accoglienza anche a chi è fuori dal quadro, a noi che siamo lì attorno. I colori sono quelli che ho visto per le strade: il verdolino, il marrone e l’ocra. L’unico punto luminoso è attorno al capo di Maria, quella è la luce a cui rivolgiamo gli occhi. Una volta finito il quadro ne ho mandato una foto al mio amico Fabio Turchi e nel giro di due ore lui ha composto una poesia in dialetto sulla Madonna del fango. Poi quest’immagine si è diffusa da un contatto all’altro e nel giro di pochissimo sono cominciati ad arrivare messaggi e riscontri.
Questo è il punto in cui l’essenzialità dell’arte, e non tanto la sua utilità, si mostra. Il quadro rende evidente il bene e tutto attorno comincia a muoversi, pieno di una consapevolezza che fortifica e rinfranca. Tu, come artista, sei contento che un’opera ti sfugga di mano?
È sempre così, c’è un senso di perdita. Finita un’opera so che non m’appartiene più. In questo caso però sono davvero attonito rispetto a ciò che vedo accadere. Nella gente c’è una sete e un desiderio che si accendono subito quando un segno glielo permette. L’immagine della Madonna del fango ha cominciato a girare in maniera assurda e nel diffondersi porta a galla testimonianze di fede commoventi. L’ho mandata al nostro vescovo e lui l’ha voluta alla prima messa domenicale che si è riusciti a celebrare dopo l’alluvione nella parrocchia più disastrata di Forlì. È stata proiettata anche durante una celebrazione a Lugo di Romagna. Ma è arrivata anche molto lontano. Un padre missionario della comunità di Villaregia, che adesso è in Costa d’Avorio, ha scritto una preghiera ispirato dall’immagine. Una mia ex alunna, oggi infermiera, mi ha riferito che le è arrivato un messaggio perfino dall’Afghanistan da una sua collega lavora là con una Ong. Questa collega, atea dichiarata, ha ricevuto in qualche modo l’immagine della mia Madonna e ha commentato: «Guarda quanto l’arte può aiutarci». Può aiutarci perché è capace di rimettere a fuoco il senso dell’esserci e dell’avere una speranza per la ricostruzione di una comunità.
Testimonianza di Rosa, di Forlì, domenica 14 maggio in occasione di un incontro sull’esperienza del Pellegrinaggio, organizzato dal Centro Culturale Don Francesco Ricci.
Ho partecipato a due pellegrinaggi della Macerata Loreto, quelli del 2018 e del 2019; l’anno successivo è scoppiata la pandemia e lì si è fermata la mia partecipazione. Quest’anno conto di esserci nuovamente, lo spero tanto. Come mi è venuta l’idea di partecipare a questa manifestazione? Mi sono imbattuta per caso in un volantino nella chiesa della mia parrocchia a Coriano e, incuriosita, ho chiesto a Patrizia, che so essere del movimento di Comunione e Liberazione, le modalità per potervi partecipare. Quell’anno sono riuscita a coinvolgere anche alcuni colleghi di lavoro e un’amica, con la quale avevo già fatto gli ultimi 300 km del cammino di Santiago. Il secondo anno invece mi sono iscritta da sola, ma poi ho fatto il cammino con altre persone della parrocchia di Coriano, con le quali è nata una reciproca simpatia amicale: la comune fatica tende a creare legami.[…] Spesso mi tornano in mente parole scritte dalla beata Benedetta Bianchi Porro: “Per chi ha fede tutto è segno” e ancora “è perché lo abbiamo capito, incontrato per un attimo sulla nostra strada” e poi cita San Giovanni “dove andremo?...Tu solo hai parole di vita eterna”. Ecco io credo che i pellegrinaggi, sotto qualsiasi forma vengano fatti, siano occasioni, opportunità per rinnovare questo incontro con Lui. […]
Si parte tra le 21 e le 22 caricati dalla Santa Messa e dal messaggio del Papa. Ognuno di noi porta con sé il proprio carico di speranze, di richieste, anche di richieste di altri che si raccomandano alle nostre preghiere. Ho timore di dimenticare qualcuno, allora chiedo alla Madonna di provvedere anche verso chi ho dimenticato, ma che si è caldamente raccomandato. Ho anche le intenzioni da portare al braciere davanti al Santuario, anche quelle di chi me le ha affidate. Altra responsabilità…
Si comincia a camminare cercando di trovare il ritmo e uno spazio utile, vivibile per camminare. Siamo tantissimi, tutti diversi; si notano gruppi di giovani, giovanissime coppie, coppie con passeggini, babbi con zaini porta bebè, suore: un fiume di gente colorata che si muove tutta nella stessa direzione. Affascinante ed entusiasmante. Ascoltiamo dagli altoparlanti appostati al margine della strada e tenuti da volontari per tutti i 28 km (un plauso anche a questi volontari) le parole di chi guida la carovana di gente. Preghiere, testimonianze, canti e momenti di silenzio, anche questi ultimi molto importanti. E poi i più stravaganti cartelli indicanti le città di provenienza dei gruppi!
La prima Macerata Loreto che ho fatto si sono dimostrati utilissimi, perché con i miei compagni di pellegrinaggio ci siamo smarriti più volte, ma con quei cartelli ci siamo ritrovati facilmente; sembrava di girare tutta Italia in poche centinaia di metri. E così, cammina cammina, si attraversano i paesi, le frazioni, passiamo davanti alle case illuminate, ai bar aperti, alle file di persone davanti ai gabinetti, alle auto della polizia che ci proteggono, alle ambulanze che ci assistono, al Santissimo Sacramento esposto al margine della strada e passo dopo passo ogni persona offre le proprie fatiche per un bene più grande, fino a quando si comincia a vedere l’alba e poi la cupola del Santuario… siamo arrivati? No ci avevano avvisato: “Quando vedrete il Santuario non illudetevi, manca ancora un’ora di cammino tutto in salita…”. Ma proprio quando la stanchezza inizia a diventare preminente, qualcuno intona: 'Sapete voi che c’è nel mondo una gran casa, è la dimora di Nostro Signor, pieni di forza di grazia e di gloria, è la dimora di Nostro Signor!' Così al ritmo di questa canzone, cantata da centinaia di persone, si battono le mani ci svegliamo e svegliamo anche tutta la città di Loreto. Infine la sorpresa, un’emozione grande, per me inaspettata la prima volta che ho partecipato: l’ultimo tratto di strada, poco prima di arrivare al Santuario è una lunghissima discesa e già dalla collina si distingue in fondo una statua sul baldacchino che sembra darci il benvenuto. Sembra la Madonna del Santuario, ma dai non può esser vero che l’abbiamo portata fuori dal Santuario! Poi ci si avvicina piano piano e si comincia a dire: “È lei! Si è lei è lei! è proprio lei” e la stanchezza si trasforma in commozione. […]
Non saprei come spiegarlo…io dopo il Pellegrinaggio ritorno a casa con qualcosa in più… una parola, una frase, un fatto, un racconto, una testimonianza o un volto, un sorriso, ma più spesso sono gli esempi di qualcuno che magari neanche conosci, ma che hai osservato o ascoltato. Allora è vero: tutti noi siamo i suoi strumenti ma quasi sempre inconsapevoli del ruolo. Questi fatti mi scuotono, ci scuotono dalle nostre abitudini, dalle nostre idee. […]
Buon cammino a tutti e viva Maria!
La camera di un luogo di cura, anche se ampia e con le finestre che guardano gli alberi, non è luogo per un buon respiro. Tutto questo nostro mondo, in uscita all’aria aperta dopo l’incubo della pandemia, si trova con il cuore asserragliato e la mente intorpidita nell’intrigo dei drammi che invadono le strade. L’elenco si ripete come il battito del martello sull’incudine: popoli in fuga, guerre indomabili, contrasti e contese, armi, siccità, solitudine, menzogne sulla vita e sulla morte, pur mentre scivoliamo sulle spiagge inseguendo il tepore del sole.
Di quale respiro abbiamo bisogno? Sembra che abbiamo chiuso porte e finestre all’aria della fede. Si infilano sottovia spiragli di brevi illusioni, con il fiato corto dell’attesa di ogni giornata. Abbiamo dimenticato la fede cristiana nei cassetti dell’infanzia, l’abbiamo relegata tra le cose abbandonate nella vecchia casa.
Viene il respiro della Settimana santa, con i giorni di preghiera e di silenzio. Viene l’annuncio della Passione secondo Matteo nella domenica delle Palme, dopo il grido dell’Osanna per il Signore che entra nella nostra Gerusalemme; viene l’annuncio della Passione secondo Giovanni il Venerdì santo. In mezzo alla settimana, ci troviamo a tavola con Gesù, con il suo pane e il suo vino a noi consegnati come Corpo e Sangue. La notte buia del Sabato santo esplode nella luce del fuoco nuovo con il grido dell’Alleluia, e poi le donne vanno al sepolcro e i discepoli corrono. L’aria mattutina del giorno di Pasqua spalanca a nuovi passi.
Il respiro della fede cristiana rinnova le energie della vita. La presenza di Gesù, annunciato dalla Chiesa, accolto e vissuto dai cristiani, torna a invadere il mondo, e consegna il dono della speranza e della pace. La Pasqua di Gesù è aria buona per il respiro di tutti.
Angelo Busetto
Memoria di Benedetto XVI:
gratitudine
per un uomo mite,
un teologo intelligente,
un papa fedele
Alla notizia della morte di Papa Benedetto, immediatamente affiora un sentimento di gratitudine per la sua persona. Che cosa mi ha donato Papa Benedetto, Joseph Ratzinger? Mi ha donato la lieta certezza della fede; una fede ragionata, ragionevole, documentata storicamente, vagliata teologicamente. Una fede comunicabile. Ne porta il segno il suo primo grande testo, Introduzione al cristianesimo, acquistato e compulsato nella prima edizione italiana del 1968 - anno fatale della contestazione - che nella copertina sgualcita e nelle sottolineature delle pagine porta i segni del passaggio di mano in mano tra alcuni giovani amici. Mi sorpresero don Roberto Tura, insegnante di teologia al seminario di Padova, che qualche anno dopo elaborava una prima sintesi della teologia di Ratzinger, e don Luigi Sartori che lo invitò a un convegno dei teologi del Triveneto sull’altopiano di Asiago, al quale ebbi il dono di essere presente. Le pubblicazioni a getto continuo del teologo Ratzinger non finivano sugli scaffali della libreria di casa, ma si aprivano di pagina in pagina rivelando un panorama imprevisto di bellezza e di ragione. Il mistero di Cristo appariva nella sua realtà e si allargava a definire e a contenere il destino di ciascuno e dell’umanità; la Chiesa si svelava come organismo vivente nel quale Cristo si rende presente; il giudizio sui fatti della storia, sulle ideologie del passato e del presente. Con audacia, Ratzinger ha recuperato il tentativo di razionalità dell’illuminismo, e nello stesso tempo ha riconosciuto alla ragione la capacità di accogliere l’infinito che la supera.
Nel 1986 Don Luigi Giussani invitò Ratzinger, cardinale e prefetto della Congregazione della fede, a tenere gli esercizi che Comunione e Liberazione propone ai sacerdoti, e lui svolse un tema affascinante, Guardare Cristo, sulle tre virtù teologali, fede, speranza, carità. Ho percorso più volte di pagina in pagina il Catechismo della Chiesa Cattolica, redatto sotto la sua direzione, per presentare la fede cristiana. Per molti anni ho seguito con vivo interesse la rivista Communio, nata dall’intesa dei teologi Ratzinger, Von Balthasar, De Lubac, con l’apporto del giovane Angelo Scola. Quando Ratzinger divenne Papa, rimasi conquistato non solo dai suoi grandi discorsi, ma anche dalle preziose omelie e dalle catechesi alle udienze del mercoledì, che presentavano i personaggi biblici, i padri e i santi della Chiesa: una straordinaria sintesi di storia e di teologia, un tracciato di vita. Verso la fine del pontificato fiorirono i tre volumi sulla vita di Gesù.
Non gli mancarono contrasti e opposizioni, per ottusità mentale o chiusura di cuore o pigrizia esistenziale. La mitezza, l’intelligenza, la gentilezza di Papa Benedetto gli hanno aperto sempre nuovi varchi di simpatia e partecipazione. Nella crisi del mondo e nelle difficoltà della Chiesa, ora affrontate da papa Francesco, aleggia la promessa che Joseph Ratzinger intravvedeva fin dal 24 dicembre del 1969: “Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi… Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. Allora la gente vedrà quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.
don Angelo Busetto
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