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Scola: «Io, il Papa e i miei anni a Milano

Corriere della Sera, lunedì 4 luglio, p. 17,

Scola: «Io, il Papa e i miei anni a Milano» (A. Cazzullo)

Cardinale Scola, lei è a Milano da cinque anni, ed è reduce dalla visita pastorale nella diocesi. Come l’ha trovata?
«Un’esperienza sorprendente. Mi ha colpito la qualità e la quantità della partecipazione: alle assemblee non eravamo mai meno di 500 e spesso più di mille. E non è mancata gente che non frequenta la parrocchia. È emersa una realtà consapevole del grande cambiamento in atto. Permane nel nostro popolo un senso della fede spontaneo, l’importanza di Dio, di Gesù nella vita. Lo si nota anche dalla partecipazione all’eucaristia, che certo non ha più le frequenze di prima degli anni 70, però è molto più consapevole: viene in chiesa chi è convinto».
È finita la ritirata del cattolicesimo nella società?
«È finita, anche se diventa più difficile aiutarci a quella che il Papa chiama “la Chiesa in uscita”. Citando il Vangelo ho detto: “Il campo è il mondo”. Facciamo ancora troppo affidamento sulle strategie, e non vediamo che non c’è uomo che prescinda dall’esperienza comune a tutti: gli affetti, il lavoro, il riposo... Inventiamo strumenti per andare verso i cosiddetti “lontani”; ma di lontano da questa esperienza umana non c’è nessuno».
Ha visto il disagio delle periferie?
«Ho visto soprattutto una grande vitalità nelle nostre province. In città come Monza, Sesto San Giovanni, Cologno Monzese, Cinisello Balsamo, dove le prove sono assai dure: immigrazione, emarginazione, disoccupazione, emergenza abitativa, sviluppo problematico; vengono però affrontate con cuore appassionato e anche con elaborazioni e progetti intellettualmente originali. In centro a Milano ho trovato realtà educative molto valide. Per esempio a Sant’Ambrogio, come all’Incoronata, ci sono bellissimi e frequentati oratori. È purtroppo doloroso però constatare che nelle periferie, soprattutto quelle della circonvallazione esterna, ci sono sacche di emarginazione e miseria molto pesanti. Forse si notano poco perché sono a macchia di leopardo. Non abbiamo la “favela” o lo “slum”, però il disagio è assai grave».
Sala ha fatto la prima giunta al Giambellino.
«Quando è venuto a trovarmi era molto deciso sulla questione periferie. Un tema assai marcato anche da Parisi. È un punto su cui si deve investire tutti insieme con creatività, dall’urbanizzazione, alla casa, fino a un accurato welfare e alla cultura. Al Forlanini ho visto abitazioni popolari, le “case bianche”, in grave degrado, con persone ammalate al nono piano senza ascensore. Grazie a Dio, dappertutto il volontariato cattolico e laico è molto attivo. Insomma, questa gente non è lasciata del tutto sola».
Quindi il cattolicesimo milanese non è in crisi.
«Questa idea va un po’ smantellata. C’è piuttosto partecipazione della nostra Chiesa - che ha ancora eccellenti risorse personali e comunitarie - al grande travaglio che è in atto nelle Chiese d’Europa».
Come mai allora il Papa non viene a Milano?
«Ha soltanto spostato di un anno: si è trovato di fronte un’agenda molto fitta per il Giubileo. Con i suoi collaboratori stiamo fissando la data».
Ma come sono veramente i rapporti tra lei e il Papa?
«Ma che domanda... Sono buoni. Conoscevo Bergoglio da prima, abbiamo lavorato insieme in diverse congregazioni. È un solido figlio di sant’Ignazio. Certo ogni Papa ha il suo stile. Lo stile di Francesco risulta a noi europei - non possiamo nascondercelo - stimolante fino al provocatorio: uno stile molto impostato sui gesti. Il Papa non percorre strade clericali, dice quello che pensa e colpisce perché è uno che si gioca in prima persona, cioè si coinvolge con il Vangelo che annuncia e per questo risulta assai convincente».
Ma c’è una destra cattolica che soffre?
«Premetto che con categorie come destra e sinistra non si capisce la Chiesa; comunque è vero che alcuni provano disagio. Mi pare che il Papa voglia superare una riduzione “dottrinalistica” della proposta cristiana. È un’esigenza che molta buona teologia ha già formulato da anni. Penso, per citare personalità con cui ho avuto il dono di collaborare, a De Lubac, Balthasar, Ratzinger: la Rivelazione è Gesù Cristo, Verità vivente e personale. Il Papa parte dall’esperienza. La sua è una sensibilità teologico-culturale ancorata alla dottrina, tipica di un cristianesimo di popolo che si è trovato di fronte problematiche antropologiche, sociali ed ecologiche enormi. Si può capire la fatica di persone che amano la Chiesa, ma che sanno bene che, per il cattolico, il Papa è il Papa e sottolineano l’importanza di ribadire formulazioni dottrinali esplicite. Altro è il discorso di chi parla senza avere una coscienza adeguata del ministero del successore di Pietro!».
Si può dire che l’esperimento dei due Papi funziona?
«Il Papa è uno solo. Comunque sì, l’attuale situazione funziona. È sempre stato previsto che il Papa potesse rinunciare in caso di necessità».
E lei cosa farà quando a novembre compirà 75 anni?
«Come ogni vescovo manderò la mia rinuncia al Papa e poi, quando verrà il momento, abiterò in una canonica vicino a Lecco. Torno nelle mie terre e farò un po’ quello che può fare ogni prete. Se avrò ancora forza, ho lì dei brogliacci. Vorrei riprendere il tema della differenza sessuale, a cui già mi sono dedicato in passato, per scrivere qualcosa».
Sul referendum costituzionale come voterà?
«Ho bisogno ancora di entrare nella questione, ma l’idea di un bicameralismo perfetto non è più praticabile. Però un Senato totalmente nominato lascia perplessi. E poi d’istinto non sono portato ad assolutizzare simili vicende. Questo vale anche per Brexit. L’ho sentito dire a Cacciari e a Prodi, con i quali mi sono confrontato pubblicamente di recente: “Non facciamone una tragedia, trasformiamola in un’opportunità”. Vale anche per il referendum, al di là della logica pro-Renzi o contro-Renzi. Per carità, chi guida è importante. Però i problemi difficili che abbiamo di questi tempi stanno a monte».
Quindi non facciamo una tragedia né di Brexit né del referendum italiano?
«Non facciamone una tragedia. E quindi smettiamo di puntare su queste cose come se fossero discriminanti assolute. Il vero problema dell’Europa è un problema di “senso del vivere”. Per un momento mi lasci tornare molto indietro: Atene, Alessandria, Gerusalemme e non solo hanno attraversato il tempo perché l’Europa, senza pretese di primeggiare, li ha assunti nel suo Dna. Così ha creato il terreno su cui è germogliato il cittadino europeo. Il cittadino oggi non si sente più accompagnato nel suo desiderio di vita pacifica, in cui le sue doti siano valorizzate, in cui i diritti autentici diventino libertà effettive e non restino sulla carta. La politica non aiuta più la società civile a dare senso al proprio camminare. La struttura finanziaria, economica, tecnocratica e burocratica è diventata così pesante da schiacciare la creatività che viene dal basso».
Il problema è il deficit delle classi dirigenti?
«C’è una netta difficoltà delle classi dirigenti. Ovunque, anche nelle Chiese. Manca spesso una leadership istituzionale adeguata, capace di raccogliere le spinte della partecipazione. Il cittadino ha l’impressione di non essere preso sul serio. L’Europa, dopo la fase fondativa, ha visto Paesi che sotto la bandiera dell’unità cercavano di cavare pragmaticamente solo il proprio utile. Non si è stati capaci di pensare come ogni singola nazione potesse contribuire all’Europa unita. Mi ricordo che all’inizio degli anni 70 in Calabria un piccolo gruppo intuì un’idea: l’Italia doveva assumersi in Europa il ruolo di leadership del Mediterraneo. Non l’abbiamo fatto. Oggi l’Italia è sola nell’accoglienza dei migranti: Chiesa, società civile e Stato da noi fanno non poco, ma l’Europa deve sostenere il processo di integrazione. La reazione a questo disimpegno secondo molti è il populismo, anche se dietro questa categoria ci sono tanti significati diversi».
I 5 Stelle sono populisti, secondo lei?
«Per quanto ne capisco sono ancora un agglomerato, che sfrutta la capacità unificante della rete per tenersi insieme. Cosa diventeranno dobbiamo vederlo. Non è populismo assecondare il bisogno dei cittadini e dei corpi intermedi che la loro esperienza umana sia considerata portatrice di civiltà. Le comprensibili paure per i grandi cambiamenti in atto - l’immigrazione, la crisi economica, il terrorismo: pensiamo oggi con acuto dolore alle vittime di Dacca, ai morti italiani, di cui uno della nostra diocesi - non possono essere usate da nessuno per nascondere la domanda delle domande, che già i nostri grandi ponevano. Penso alla bella espressione di Leopardi “ed io che sono?”. Non “chi sono”; perché è questo “che” a tener dentro il mio rapporto con tutta quanta la realtà. Persone libere, capaci di relazione comunitaria con tutti e con tutto. Di questo ha bisogno l’Europa».
Sulla povertà insiste molto il Papa.
«Quando il Papa dice che la povertà va letta teologicamente, intende affermare che partendo dalla carne e dal bisogno dell’altro uno deve riflettere su come concepisce la società e su come le istituzioni agiscono in essa, anche arrivando alla critica giusta ed equilibrata dei poteri forti».
Quali sono i poteri forti?
«Capisco benissimo che la finanza è molto importante, però capisco altrettanto bene che noi del popolo siamo messi in condizione di comprendere assai poco di quello che la finanza fa. E la finanza morde sulla nostra pelle. Qui c’è qualcosa che non funziona. Ad esempio una forma di salario minimo va introdotta».
Salario minimo? O il reddito di cittadinanza che chiede Grillo?
«Non entro nelle formule tecniche, ma il salario non può essere sotto un livello dignitoso e chi è senza reddito va sostenuto».
Come valuta l’avventura di Renzi?
«Ammiro il coraggio di questo giovane politico: si espone, dice quello che pensa, credo che sia anche sincero quando afferma che lui non vuole occupare il potere a lungo. Forse deve prendere meglio le misure».

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