Autore: don Angelo Busetto
Sabato 9 giugno 2018 – Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria; S. Efrem, diacono cantore di Maria, 306-373
Vangelo secondo Luca 2,41-51
I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore.
INCONTRO DI CUORI
La festa del Cuore Immacolato di Maria è riverbero della festa del Sacro Cuore di Gesù. Nella storia reale è avvenuto l’inverso: dal Cuore di Maria è nato il Cuore di Cristo. L’amore Maria e di Gesù non è solo sentimento. E’ una reale volontà di bene per noi, e ci sospinge e sostiene ad occuparci delle cose della vita come cose del Padre nostro. Custodiamo nel nostro cuore, come una semente che cresce, l’amore di Dio che ci viene donato dal Cuore di Gesù e Maria.
«Sono ateo, mi costa fatica dirlo». Ma Dio passa attraverso le nostre ferite
Marina Corradi - Avvenire 8 giugno 2018
«Ho provato a credere» esordisce la vibrante lettera di un professore di filosofia. Segue il racconto di una vita segnata dal dolore...
Caro direttore,
io ho provato a credere in Dio. Mille e mille volte da quando sono nato. Ho cominciato da bambino, quando all’oratorio un frate ci ripeteva le Ave Marie. Ci raccontava di un asino, di un bue, di una fuga in Egitto, e di Erode che non era riuscito a decapitare Cristo in culla. Mille volte stavo per dire sì, ci credo. Poi capitava sempre qualcosa... La prima volta è stata la mia nonna a convincermi dell’esistenza di Dio. La sua bontà, il suo sorriso uscito da una fotografia d’altri tempi, le sue mani che sapevano di borotalco e mi carezzavano la fronte. Vivevo abbracciato a lei. Mi sembrava di volare rispetto alla banalità dei miei coetanei. Loro razzolavano nei cortili, sulle spiagge, e io a volare con mia nonna. Poi mia nonna è rimasta paralizzata: la sua bocca si è stortata. Da angelo, l’ho vista satana: un’espressione sadica, un sorriso terribile, e un occhio più basso dell’altro, tirato da una parte. L’hanno portata via una notte in barella. Non l’avrei più rivista. E quando penso a lei, ancora oggi, la ricordo storta, nella maschera finale. Non riesco più a ritrovare i suoi occhi chiari, le sue mani di borotalco. Allora ho detto no a Dio, agli angeli. Mi sono sposato con un rito civile, e dopo due anni di matrimonio, mia moglie ha messo al mondo una creatura meravigliosa, uscita da un quadro di Renoir. Gli stessi colori di pelle rosa e i capelli biondi e ricci. Somigliava a mia nonna. Nascendo, aveva cancellato quel ghigno sul viso di mia nonna, e l’aveva fatta sorridere. Era lei. Lui era lei. Per un istante ho ripreso in mano tutto ciò che mi parlava di Cristo. Sono arrivato a pregare perché lui non s’ammalasse mai, perché le durezze del mondo lo risparmiassero almeno nei primi anni, e lo aggredissero dopo, più tardi, quando lui avesse fatto i muscoli dentro e fuori. E invece ancora una volta la mazzata del destino. Un attacco violento di una febbre sconosciuta. Una corsa all’ospedale, l’ossigeno che non bastava più... Se quel Dio c’era, in qualche modo ce l’aveva con me. S’accaniva, mi respingeva non appena io mi avvicinavo. E così avanti, fino a oggi. Oggi che insegno filosofia. Tante teorie, tante idee e marchingegni, per giustificare l’amarezza delle nostre esistenze. Quando mi capita di interrogare ragazzi che si dichiarano cattolici, li ascolto con grande attenzione. Cerco di capire i loro meccanismi cerebrali, i loro rapimenti, in fondo ai quali riescono a trovare Dio. Sono ateo. Mi costa dirlo. Fatico a dirlo. Mi vergogno a dirlo. Soprattutto davanti ai giovani, che hanno il diritto di sperare, il diritto di sognare un mondo migliore. Il diritto di volare, in questo terzo millennio, dove non conti soltanto il denaro, la raccomandazione, dove conti invece e soprattutto la dignità, il rispetto e anche la bontà. Che non è una forma di educazione per dare spazio a tutti, ma un atteggiamento per carezzare i cervelli degli altri, per non inquinarli, per non plagiarli mai. Per questo io chiedo scusa persino allo specchio del mio ateismo. Una strada dove la solitudine è la prima regola. Dove quello che otterrò fino all’ultimo istante di vita sarà il mio paradiso o il mio inferno. Così, mi ritrovo a passare i fine settimana negli agriturismo. Osservo la natura. Ma il gatto che corre davanti alla fattoria, finirà sotto un autobus. L’ho visto freddo, sull’asfalto, irriconoscibile. E quei cavalli nel galoppatoio? Come sono irascibili, eccitati. Si ribellano alla frusta, hanno delle impennate d’orgoglio. Ma poi s’ammalano, e muoiono. Anche loro immobili, irriconoscibili. E poi osservo i fiori dai colori sgargianti, che ti fanno pensare a qualcuno di superiore, a una mano che li ha inventati, creati. Ma basta una notte di pioggia, e li ritrovi melma, già nella terra, già preda di insetti. Siamo come fiori colorati e dischiusi, e inseguiamo il sole. Duriamo troppo poco. Il tempo di intuire questo misterioso malessere che non ci fa nemmeno riscaldare. Arriva già il vento, ogni anno più freddo dell’anno prima. Ho provato a volare mille volte, e sempre qualche sciagura incontrollata mi ha ributtato a terra. Penso che se Dio ci fosse stato, almeno un volo sarebbe arrivato alla meta. Ma non mi lamento, aspetto gli anni a venire, e voglio viverli istante dopo istante. Non chiedo pietà, e nemmeno tenerezza. Sono un fiore, finché c’è il sole. Poi comincerà a piovere. Per una malattia o per un altro dolore che non sopporterò, finirò mischiato al fango. Chissà chi mi calpesterà per primo.
Pino Enzo Beccaria
P.S. Scrivere questa lettera non è stato né semplice né facile. Un ateo che scrive ad “Avvenire”... Ma io al mattino, nella mia “mazzetta” voglio anche questo giornale perché lo trovo davvero confezionato più che bene.
Caro Beccaria,
il direttore mi ha affidato il difficile compito di rispondere alla sua bella lettera, la lettera di un professore di filosofia che si rammarica di essere ateo. Io sono una giornalista, non ho gli strumenti per dibattere con lei su un piano filosofico. Semplicemente le risponderò come farei con un amico che a tavola, una sera dopo cena, mi parlasse come parla lei. Non avendo la pretesa di convincerla, né di catechizzarla. Soltanto dialogando come con qualcuno che ti è caro. C’è stato un momento della mia vita, in cui avrei potuto scrivere parole simili alle sue. Attorno ai vent’anni. Non ero credente, come lei. Venivo da una famiglia sofferente e divisa. Noto perfino una singolare simmetria fra ciò che lei ricorda di sua nonna, e i miei primi anni con mia madre. Anche io ho passato la prima infanzia abbracciata a mia madre. Quasi ubriacata dalla sua straordinaria tenerezza. Felice, fra le sue braccia, come in un Eden. Anche io come lei, professore, ho visto quel volto amato trasfigurare, straziato da un lutto, e poi da una follia ingenerata dal dolore. Mia madre non era più la stessa, e io, sbigottita, ero stata cacciata dal mio Eden. Lei accenna a un figlio perduto; io sono marchiata dal ricordo di una sorella di quattordici anni, pallida, la treccia bruna su una spalla, il petto che si alzava a fatica in un respiro affannoso, nell’ultima lotta con una malattia mortale. E così, professore, una volta cresciuta io somigliavo un po’ a lei. Non riuscivo più a credere in un Dio buono, in un Dio che mi volesse bene. Se Dio c’era, pensavo, io non gli interessavo. Aveva le galassie e l’immensità dell’Universo cui badare, del resto, cosa mai poteva importargli di me. Quindi, caro Beccaria, io la capisco. E anche quando poi, adulta, dopo molti travagli, ho ritrovato la fede, non ho dimenticato o ripudiato quella ragazzina che si credeva dimenticata da Dio. Ogni tanto ancora si fa viva, discute con me, e io devo trovare le ragioni per convincerla. Purtroppo non godo di una fede pacificata, corazzata. Ogni volta che vedo il dolore – e soprattutto il dolore innocente, l’intollerabile dolore dei bambini – sono attraversata da una ribellione. Pretenderei spiegazioni, vorrei poter vedere il senso di tanta sofferenza. La ragazza che ero è ancora in me, con le sue domande brucianti. Ma in verità, e ormai sono quasi vecchia, il senso del dolore degli innocenti io non l’ho capito mai. È un mistero grande. Davanti al quale una volta maledivo – e ora, invece, prego. Lei, professore, scrive di un “malessere” che vede nella natura, perfino nella sofferenza e nella morte di poveri animali. Anche qui siamo simili: l’agonia di un animale, gli occhi sbarrati di un cane travolto sull’asfalto, mi turbano, perché quella creatura non sa nulla, nemmeno ha una coscienza, nemmeno può sperare. Lei certo conoscerà quella famosa poesia di Montale che recita: “Spesso il male di vivere ho incontrato:/ era il rivo strozzato che gorgoglia/ era l’incartocciarsi della foglia riarsa/ era il cavallo stramazzato...” C’è davvero, il misterioso malessere che lei vede nei cavalli inerti a terra, e che anche a me dà pena. Ma, da quando ho ritrovato la fede in Cristo, mi pare di riconoscere in quel male di vivere l’eco oscura di uno schianto che frantumò l’Eden. Di un peccato originale che ha marchiato il Creato, il quale pure, scrive Paolo nella Lettera ai Romani, “geme ed è in travaglio”. In sofferente attesa. Così come gli uomini attendono di essere liberati dal male e dal dolore: sapendolo, oppure anche negandolo. Non bastano certo poche righe su un giornale, per rispondere a una lettera come la sua. Né posso qui raccontare come sono tornata cristiana. Mi sono convinta negli anni però, come scrisse Emmanuel Mounier, che “Dio passa attraverso le ferite”. Che proprio le lacerazioni che la vita provoca in noi sono le fessure per cui Dio può raggiungerci – attraverso la nostra corazza di orgoglio. Il bel volto straziato di mia madre, il petto ansante della mia sorella quasi ancora bambina, sono stati, sì, dei solchi come di aratro in me. Ma, senza, io non avrei avvertito infine un così affannoso bisogno di Cristo. Senza quei solchi, non avrei mai capito che occorre, a un certo punto, arrendersi, e inginocchiarsi. E poi riprendere il cammino. E domandare che venga, colui che ha traversato la notte del Sabato santo. Che è sceso nel profondo della morte e del dolore, di tutto il dolore del mondo, e ne è tornato vivo, risorto – perché tutti noi possiamo vivere davvero, un giorno. La ventenne che sono stata si segnò un giorno su un quaderno, meravigliata, una frase di Pascal citata da Giovanni Paolo II in un’udienza: “Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato”. Lei, professore, che si guarda allo specchio e rimpiange la sua mancanza di fede, e insistentemente interroga gli studenti credenti, cercando di capirne le ragioni: chissà che quella frase, professore, non riguardi anche lei.
LUNGA NOTTE DELLE CHIESE
Nella festa del Sacro Cuore di Gesù preghiamo per la santificazione dei sacerdoti e per le nuove vocazioni sacerdotali. Stasera, dalle ore 21 in Cattedrale si svolge la LUNGA NOTTE DELLE CHIESE: preghiera, silenzio, parola di Dio, Esortazione GAUDETE ET EXSULTATE. La prima ora sarà guidata, mentre il seguito viene lasciato alla libera iniziativa delle persone. Buona giornata!!!
Venerdì 8 giugno 2018 SACRATISSIMO CUORE DI GESU’
Vangelo secondo Giovanni 19,31-37
Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
ACQUA E SANGUE
Lo sguardo acuto del discepolo che Gesù amava, riporta una testimonianza piena di realismo e ricca di simbolismo. Il liquido acquoso e sanguigno sgorgato per il colpo di lancia dal fianco di Gesù morto in croce – secondo i Padri della Chiesa e tanti fedeli – rappresentano l’acqua del Battesimo che fa nascere i cristiani e il sangue dell’Eucaristia che ci risana. Tutta l’opera Signore e il suo sacrificio si concentrano nel suo Cuore trafitto, dal quale sgorgano i due fiumi che dànno vita al mondo.
Giovedì 7 giugno 2018 Sant’Antonio Maria Gianelli, vescovo, La Spezia 1789-Piacenza 1846
Vangelo di Marco 12,28-34
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio».
E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
DISCEPOLI DEL MAESTRO
Lo scriba approva Gesù, il Maestro! Gesù intravvede la posizione buona di quell’uomo. Conoscere è importante, per avere chiari i comandamenti come strada di moralità, che conduce alla realizzazione della persona e alla corretta impostazione della società. Gesù, mentre dice allo scriba che non è lontano dal regno di Dio, gli prospetta un nuovo passo. Quale? Non ci salvano la conoscenza e la sapienza, ma la sequela. I discepoli del Gesù, non solo ne imparano e conoscono la dottrina, ma lo seguono come Maestro.
Mercoledì 6 GIUGNO 2018, San Norberto, abate e vescovo
Vangelo secondo Marco 12,18-27
In quel tempo, vennero da Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e lo interrogavano dicendo: «Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che, se muore il fratello di qualcuno e lascia la moglie senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano sette fratelli: il primo prese moglie, morì e non lasciò discendenza. Allora la prese il secondo e morì senza lasciare discendenza; e il terzo egualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza. Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. Alla risurrezione, quando risorgeranno, di quale di loro sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Rispose loro Gesù: «Non è forse per questo che siete in errore, perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? Quando risorgeranno dai morti, infatti, non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli. Riguardo al fatto che i morti risorgono, non avete letto nel libro di Mosè, nel racconto del roveto, come Dio gli parlò dicendo: “Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe”? Non è Dio dei morti, ma dei viventi! Voi siete in grave errore».
UN COLPO D’ALA
Quale speranza di vita abbiamo? Vorremmo non finissero i beni terreni: la salute, la giovinezza, la carriera, la capacità di fare, la fama. Soprattutto vorremmo non finisse l’amore che riceviamo e quello che doniamo. Con un colpo d’ala, Gesù innalza il nostro desiderio e ci fa intravvedere un cielo più grande, una felicità più bella, un amore infinito. Vivendo secondo questa prospettiva possiamo gustare le realtà terrene – come il matrimonio e la verginità - secondo la promessa che già contengono.
Martedì 5 giugno 2018 San Bonifacio, apostolo della Germania, 675-750
Vangelo secondo Marco 12,13-17
In quel tempo, mandarono da Gesù alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso.
Vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?».
Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo». Ed essi glielo portarono.
Allora disse loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio». E rimasero ammirati di lui.
QUALE TRIBUTO?
Sono tanti i tributi che paghiamo a Cesare, non solo in termini finanziari. C’è anche il tributo che rischiamo di pagare alla mentalità comune, alle convenzioni sociali, al mantenimento del buon nome e via di seguito. La lealtà verso lo Stato non dovrà trasformarsi in connivenza con leggi ingiuste, né piegarsi a sostenere culture e pratiche immorali. Non possiamo togliere a Dio quello che è di Dio. Persone e cose appartengono a Lui: occorre guardarle con il suo sguardo e il suo cuore.
Lunedì 4 giugno 2018 San Filippo Smaldone, sacerdote educatore, Napoli 1848-1923
Dal Vangelo secondo Marco 12,1-12
In quel tempo, Gesù si mise a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti, agli scribi e agli anziani]:
«Un uomo piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Al momento opportuno mandò un servo dai contadini a ritirare da loro la sua parte del raccolto della vigna. Ma essi lo presero, lo bastonarono e lo mandarono via a mani vuote. Mandò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo picchiarono sulla testa e lo insultarono. Ne mandò un altro, e questo lo uccisero; poi molti altri: alcuni li bastonarono, altri li uccisero.
Ne aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo, dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma quei contadini dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra”. Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna.
Che cosa farà dunque il padrone della vigna? Verrà e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri. Non avete letto questa Scrittura: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?».
E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto quella parabola contro di loro. Lo lasciarono e se ne andarono.
LA VIGNA QUOTIDIANA
Oggi Gesù ci affida una vigna: sono le ore della giornata, le occasione che accadono, gli incontri che facciamo. La vigna quotidiana è una possibilità aperta, un luogo di impegno offerto al nostro desiderio di bene e di felicità per noi e per gli altri. Quando la nostra libertà si mette in gioco per diventare risposta a Colui che ci ama e ci consegna i mattoni della giornata, allora può sorgere un tratto di nuova costruzione, utile e bella.