Vai al contenuto

12 maggio 2019 Domenica IV di Pasqua

 Vangelo secondo Giovanni 10,27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

L’UNICO PASTORE e i CANI PASTORI

 

Pecore e pastori: ancora? Il Vangelo ce ne ripropone l’immagine e la lancia in alto, fino a toccare Dio Padre. Le pecore – così come gli altri animali e tutti gli uomini della terra – appartengono al Dio che ci ha creati e ci ama, e ci vuole tenere stretti nella sua mano. Perché non ci perdessimo – come pecore lasciate in balìa di se stesse – Dio Padre ci affida al suo Figlio che è una sola cosa con lui e che si è fatto uomo perché lo potessimo vedere e seguire, percependo con le nostre orecchie una voce che ci ama e ci chiama per nome.

Abbiamo bisogno del pastore noi, uomini d’oggi, che rivendichiamo solitudine e indipendenza, proclamandoci single e autonomi, liberi e beati come il vento? Dov’è il pastore che merita di essere guardato e seguito, nel nostro mondo di capitani e padroni senza faccia, dall’identità spappolata nell’anonimato della piazza mediatica, delle imprese multinazionali, dei colossi finanziari, della invasione sessuale?

“Ma tu ti senti un pastore?” - domandava Paolo Rumiz, autore de ‘Il filo infinito’, a un monaco benedettino - “Io un pastore? – si è sentito rispondere - Il pastore è lassù. Io sono il cane pastore, quello che tiene insieme il gregge, che lo difende, che cerca le pecorelle smarrite”.